giovedì 29 marzo 2012

Ma cosa stai mostrando?

Sì, lo so, sono sempre qui a menarla con lo stesso discorso, ma continuo a essere insoddisfatta di ciò che trovo i giro.
L’epidemia Gamberetta si sta diffondendo come un cancro.
Con i suoi pro e i contro, come tutte le ideologie prese tout-court del resto.
Il progetto iniziale della barca dei gamberi nasceva in opposizione al totale degrado e sfacelo dell’editoria fantastica italiana (non che la narrativa non fantastica se la passi meglio), con l’intento di redigere recensioni basandosi su criteri oggettivi.
Fin qui, tanto di cappello. Ma poi qualcosa nel meccanismo si è rotto. Il carisma di Gamberetta ha creato una schiera di adepti che non solo aderiscono tout court alla sua tecnica, ma copiano pari pari anche il suo stile quando scrivono gli articoli dei loro blog. E fin qui, potrebbe anche non fregarmene niente, perché se il metodo è buono è anche giusto che si diffonda.
Il problema è un altro: la TECNICA NON E’ BUONA.
Perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, dalla teoria alla pratica ce ne passa. E la maggior parte dei sedicenti autori che usano lo stile trasparente cannano. Le robe che vengono fuori non sono per niente così buone come dovrebbero essere, sono allo stesso livello, se non peggio, di scrive alla come capita. Sì, peggio, perché oltre a non essere buone, hanno pure lo svantaggio di essere incomprensibili. Questo è il primo svantaggio di mostrare e non raccontare: ciò che dovrebbe migliorare la scena arricchendola di dettagli, in realtà la peggiora perché crea solo immagini confuse o dà addito a fraintendimenti.
Facciamo un esempio, tratto dal blog Il destino di Nike:

A: Dom sentiva le mani fredde, deboli, la vista annebbiata, le braccia tremanti.

B: Dom (3) era stanco e debole, troppo per reggere il peso del suo enorme avversario.

Secondo l'autore la frase A dovrebbe essere "giusta" perché la stanchezza è mostrata mentre la frase B è "sbagliata" perché è raccontata. Volete i miei due cent? Per quanto mi riguarda funziona di più la seconda. Quando ho letto la prima frase non ho affatto percepito la stanchezza, ma ho semplicemente assimilato una serie di sensazioni di Dom, senza catalogarle come stanchezza, ma come... Come NIENTE! Le mani fredde e deboli... forse ha problemi di circolazione; la vista annebbiata... ha il metabolismo non gli funziona bene e ha un calo di zuccheri, o forse ha il sole negli occhi, oppure-è stata la mia ipotesi, se devo essere sincera- ha preso qualche sostanza velenosa o qualche droga... Insomma, ho pensato a tutto tranne che fosse stanco.

Sempre secondo l’autore, la frase A dovrebbe essere la rappresentazione “visiva” della stanchezza. C’è un piccolo problema: non tutte le sensazioni si possono mostrare. Perché non si vedono dal di fuori, sono interne. Quando io ho un dolore, posso anche non darlo a vedere dal di fuori, ma io lo sento. Idem per la stanchezza.
Cos’è per voi la stanchezza?
Aver le mani sudate, il fiatone, crampi ai muscoli?
Be’, io ad esempio sudo pochissimo, perciò posso essere anche molto stanca senza esser sudata. Se io faccio una lunga camminata di diverse ore, non avrò né il fiatone, né sarò sudata eppure mi sentirò stanca, ma la mia sarà un sensazione interiore, un bisogno, la voglia di scaraventarmi sulla prima sedia che trovo per riposarmi le gambe. Ma questo non si può mostrare perché dal di fuori (non essendo né sudata né avendo il fiatone) non si nota niente.
Viceversa un sintomo di quelli elencati in precedenza, potrebbe avere altri significati: tizio è sudato; io penso che fa molto caldo, non che è stanco.
Mi direte: ma si deve capire dal contesto. Ok, ma non sempre è così, spesso il contesto è ambiguo e dà luogo a fraintendimenti. Davvero devo mettermi qui a elencare tutte le volte in cui nella vita quotidiana ci sono incomprensioni tra due interlocutori? E nella vita reale ci sono ulteriori fattori (quali espressioni del volto, tono della voce, odori, etc...) che dovrebbero aiutare a evitare fraintendimenti, figuriamoci sulla carta che oltre a non vedere, non si può sentire, né toccare, né percepire.
Il punto focale sta proprio qui (ed è secondo me il punto in cui Gamberetta canna in pieno il concetto del mostrare):
IL “MOSTRARE” SERVE PROPRIO PER RICREARE SITUAZIONI AMBIGUE, NON PER CHIARIFICARE UN’AZIONE.
E non lo dico io:
“Quando si mostra, il lettore [...] è libero di trarre le proprie conclusioni sul senso delle azioni dei personaggi. [...] Questo crea profondità nei personaggi [...] perché si è concessa loro l’ambiguità e la ricchezza delle persone reali”
(Donna Levin, 2004)*

Ambiguità, appunto. Bisogna essere consapevoli che mostrare crea ambiguità e quindi comportarsi di conseguenza. Se io voglio mostrare con precisione una scena, non voglio creare nessuna ambiguità, anzi, voglio che il mio libro sostituisca una telecamera. Ma siccome non ho una telecamera, devo fare appello alle ulteriori risorse che offre la narrazione (e questa è appunto una “risorsa”, non un difetto). Se al cinema posso solo mostrare, qui posso anche narrare per chiarificare meglio un concetto.
E’ un importante risorsa. Non snobbiamola.

Ridurre tutto al mostrare, significa ridurre tutto al vedere. Ma la vista non è il nostro unico senso. C’è il tempo del vedere e quello del sentire.
Se io scrivo: Tizio è stanco.
Va bene.
Non devo vedere niente, perché devo sentire. Quello che conta è che il lettore abbia la percezione di stanchezza (che sarà soggettiva, immagino) non deve vedere la stanchezza perché non c’è niente da vedere (io ad esempio m’immaginerò la stanchezza come una percezione di spossatezza diffusa in tutto il corpo). Diventa necessario mostrare se la stanchezza è eccessiva e degna di nota (tizio che avanza strisciando, la lingua per terra, un bagno di sudore, etc..).
Se invece io voglio narrare un duello, in questo caso certo che è più efficace mostrare perché sennò non vedo niente. Scrivere alla Troisi “era tutto un colpisci, affonda, para” è come non dire niente, è solo una macchia confusa. In questo caso sono azioni concrete perciò è più efficace mostrarle.

E allora, come sempre, entrano in gioco le variabili individuali e soggettive: il talento e l’esperienza dell’autore, sia per capire cosa va mostrato e cosa invece è meglio raccontare, sia perché, quando dovrà farlo, sarà in grado di mostrare nel modo più comprensibile possibile.
Già da questa frase, ci si accorge di quanto sia difficile usare la tecnica del mostrare perché occorre una dote di fondo in tale metodo (cosa che non tutti hanno) o, in alternativa, si può supplire alla mancanza di talento naturale con lo studio e l’applicazione, ma qui occorrono anni di esercizio e di esperienza. Cosa che gli esordienti, in quanto tali, non hanno. Perciò io mi darei una calmata prima di sbandierare con tanta leggerezza l’obbligo del mostrare a chi non ha esperienza in narratologia perché altrimenti si fa solo del danno. E le prove ci sono: gli esordienti che usano tale tecnica spesso (se non sempre) peggiorano la qualità dei loro brani che in prima battuta avevano scritto narrando (e che risultavano appunto più comprensibili).
Un’ultima precisazione: quando parlo di esperienza, non mi riferisco solo al fatto di esercitarsi a casa, intendo esperienza come “vero scrittore”, cioè scrittore pubblico, perché è solo grazie alla reazione e ai commenti di un vasto pubblico di lettori che si possono avere le conferme se il nostro metodo funziona o meno.


* Levin Donna, (2004). Scrivere un romanzo, Dino Audino Editore.