lunedì 9 ottobre 2017

Bruno Editore, casa editrice a pagamento. Truffa?

Sono appena tornata da un'esperienza che mi ha lasciata perplessa.
Ho partecipato a un corso della Bruno Editore, che riguardava la scrittura, in particolare "tecniche di scrittura veloce" e "come pubblicizzarsi". Son sincera, non che sperassi di imparare molto dal corso in sé, visto che - bando alla modestia! - di tecniche di scrittura ne so più io (!), però mi interessava avere delle dritte per pubblicizzarmi e soprattutto ero interessata alla proposta di pubblicazione. Esattamente.
Sapevo, per loro specifica ammissione, che prendono in considerazione proposte editoriali solo dalle persone che partecipano al corso. Sì, avete capito bene: non inviate il vostro manuale di formazione (perché in pratica si occupano solo di quelli, non pubblicano romanzi) alla casa editrice, se volete proporvi, dovete fare il corso Numero1. E ora ho capito perché.
Già la cosa un pochino mi puzzava, ma ho voluto verificare di persona.
Dei tre giorni di corso, la procedura per proporre il proprio libro viene esposta solo l'ultimo giorno e indovinate perché.
Perché è a pagamento!
Ok, oltre alla pubblicazione in sé, la casa editrice include nel prezzo anche vari corsi: un corrso di marketing, uno di public speaking e varie ed eventuali, inoltre GARANTISCE - cosa non da poco! - all'autore di diventare bestseller su Amazon.
Un bel modo per solleticare l'ego degli scrittori, no?
Ma tutto questo a quanto viene offerto?
Avrete tutto il pacchetto completo per la modica cifra di…
1000?
2000?
5000?
Macché!
Solo 12000 euro!!! (Ovviamente più IVA!)
Sì, avete capito bene! In barba a tutte le "Albatros" del mondo che con i loro tot euro già ci sembravano così care!
Io penso che chi ha accettato quella proposta o è abbelinato o non è molto portato per la matematica.
Dunque facciamo due calcoli.
Allora innanzitutto Giacomo Bruno in persona dichiara che i famigerati bestsellers l'anno scorso hanno venduto ben….
100 mila copie?
500 mila?
1 milione?
No.
70.000 copie.
In 40.
Si avete capito bene: non sono 70mila copie a testa, ma IN TUTTO!
Quindi se invece voi siete un po' più portati per la matematica, vi renderete conto che non sono neanche 2.000 copie a testa! Per la precisione sono 1.750.
Un genio, di quelli che hanno pubblicato con loro l'anno scorso, ha anche osato dire che è troppo poco quella cifra, dovrebbero raddoppiare i prezzi. Ora o costui/costei ha venduto da solo/a 60.000 copie e ha lasciato le briciole agli altri, oppure dovrebbe tornare in prima elementare!
Ora la Bruno Editore dà il 15% di interessi, ciò significa che su un libro il cui prezzo di copertina si aggira intorno ai 10€, un autore percepisce 1,5€ a copia. Se vendi 2000 copie (voglio essere positiva e mi tengo alta perché abbiamo visto che molti a 2000 copie manco ci arrivano, ma io voglio essere fiduciosa), significa che guadagni 3.000€!
Sì, avete capito bene: spenderne 12.000 per guadagnarne - forse! - 3.000!
Ti pare un affare?
L'unica che ci guadagna è la Bruno Editore che, oltre a intascarsi i tuoi 10.000€, prende pure le royalties sulle tue vendite!
Perché tu prendi il 15% quindi - sempre per la famosa matematica - l’85% va a loro! Ok, toglici le varie tasse, percentuali dovute ad Amazon, ecc., però...
Fatti due conti.
Anzi no te li faccio io: loro ti dicono che quei soldi gli servono per farti pubblicità e per spingere il tuo libro, ok, ma se ti autopubblichi e spendi la stessa cifra per farti pubblicità dici che 2000 copie non le vendi?
Forse no, ma conta che con Amazon il tuo guadagno è quasi pulito, quindi se metti in vendita il tuo libro a 11 euro ne in cassi 10; in questo caso, se ne vendi 1500 copie, significa un incasso di 15.000 euro!
Un po' diverso da 3.000 no?!

Tirando le somme: il mio giudizio sulla Bruno Editore come Casa Editrice: BOCCIATA!
Come agenzia pubblicitaria, invece lascio il beneficio del dubbio: non avendo usufruito dei loro servizi in tal senso, non mi sento di giudicare, anche perché non ho metri di paragone con altre agenzie pubblicitarie. Ovvero, tradotto in soldoni: se spendo 12.000€ di pubblicità, cosa riuscirei ad ottenere, quante copie potrei vendere? E quanto incasserei?
La questione è aperta...




mercoledì 23 agosto 2017

Selfpub digitale: la via per la giustizia!

Tempo fa Gamberetta diceva che il webbe avrebbe portato giustizia agli scrittori perché chiunque avrebbe potuto pubblicizzarsi, senza dover ricorrere al benestare delle Case Editrici (CE) che seguivano la logica dei profitti e perciò avrebbe vinto il merito anziché il profitto. Perché, grazie alle recensioni dei lettori e al passaparola, avrebbero avuto maggior notorietà i più competenti e i romanzi migliori.
Ma tuttora non è così: innanzitutto dominano ancora le librerie e le grandi distribuzioni, anche se bisogna ammettere che ultimamente anche il digitale sta prendendo piede; ma soprattutto si ha bisogno di avere una CE alle spalle (meglio se grande) per la pubblicità, non cambia niente se cartaceo o digitale, se nessuno ti conosce, anche se sei “pubblicato”, il libro non lo compra nessuno.
E ora arriviamo al punto.
La pubblicità.
Purtroppo come temevo, la possibilità data a tutti di autopubblicarsi non ha portato equità e giustizia, ma ha favorito quelli più bravi a pubblicizzarsi; ancora una volta non vince la bravura, la professionalità di scrittore, ma l'abilità di marketing, certo anche questa è una capacità, ma che non c'entra un tubo con i meriti letterari. Alla fine la sfida l'ha vinta chi è più popolare, non il più bravo. La fama vince sempre. Non solo, ma non avendo neppure il filtro delle CE, gli scritti rischiano di essere (anzi, nel 90% dei casi sono) di pessima qualità, decisamente peggiore di quella scarsa di cui ci si lagnava riguardo alle grandi case editrici.
Ma c'è un altro problema che è scaturito dalla possibilità di autopubblicazione selvaggia: il caos! La casa editrice assicurava un minimo di selezione, di editing. La pubblicazione selvaggia non assicura un bel niente di niente! -_- Non essendoci più il filtro delle CE, chiunque scriva qualsiasi cazzata può autopubblicarsi e ciò crea una vera e propria giungla in cui è difficile districarsi. Come faccio a sapere che il libro che sto comprando non sia una schifezza immonda? E ancora: come faccio a trovare una perla rara se è sommersa di merd immondizia?
Alla fine affidarsi a una CE che faccia per me il lavoro sporco, che filtri la spazzatura e mi assicuri un minimo di editing/revisione, è la soluzione più facile.
L'unica nota positiva dell’era digitale, è che diminuendo i costi di produzione sono potute nascere realtà alternative, ovvero CE esclusivamente digitali, in questo caso sì che si ha avuto un'espansione e un miglioramento dell'offerta, soprattutto per le pubblicazioni di nicchia che altrimenti troverebbero poco spazio nell’editoria tradizionale.

venerdì 30 giugno 2017

Trovare la propria voce

Lo spunto per questo post nasce da una recensione dI Michela Murgia, una stroncatura di un fumetto ascoltata un po' di tempo fa a “Le Storie”, il programma di Augias su RaiTre. Ciò che mi ha colpito è stata la motivazione della stroncatura: il difetto del fumetto era che cercava di ammiccare alla critica più impegnata, introducendo nella storia elementi di spessore, filosofici, con il risultato di essere un ibrido poco convincente, non abbastanza originale ma neppure così tradizionale da poter ricevere l'attenzione e l’apprezzamento del pubblico e della critica ortodossi. E infine concludeva con il suggerimento all'autore di non perdersi in questa via di mezzo poco convincente, ma di trovare la propria voce, di essere più originale; questo è stato un tentativo, ma troppo timido per essere degno di nota e di spessore.
E sapete perché non avrà mai i favori della critica impegnata? Perché comunque rimane un “fumetto” e, si sa, un fumetto è roba per ragazzini, una narrazione di serie B. Non c'è niente da fare, chi la pensa così continuerà a pensarla così anche se scrivete la Divina Commedia a fumetti. Quindi inutile cercare di compiacerli perché a loro non piacerete mai!
Mi sovviene un aneddoto di qualche hanno fa quando mio padre ascoltò l'esibizione di Caparezza al concerto del Primo Maggio, seguita subito dopo da un classico della musica italiana, forse De Gregori. Due generi completamente diversi e mio padre commentò: “Questa sì che è una canzone, non come quella di prima: ‘non sono stato io-siete stato voi’... che cazzata!”. Ora, la cazzata in questione era “Non siete Stato voi” di Caparezza. Se si legge il testo, si scopre che tanto cazzata non è; ora, a parte il tema politico condivisibile o meno, la canzone fa un bellissimo gioco di parole tra la frase “non sono stato io” (come a dire, sono innocente) e “non siete Stato voi”, ovvero voi (politici) non siete lo Stato, non lo rappresentate, perché con la vostra corruzione e malaffare lo avete tradito. Il testo è tutt'altro che una cagatina, oltre ad essere un continuo di giochi di parole e doppi sensi che neanche Dante, è una palese critica socio politica, quindi si può dire che questa canzone è decisamente impegnata e strutturalmente complessa. L'altro testo invece era banalotto, né impegnato, né complesso, belle paroline orecchiabili. È vero, se non ascolti le parole, di primo acchito Caparezza sembra che borbotti cose senza senso, può essere persino fastidioso, e può apparire che la canzone sia una roba tipo “sono stato io, no sei stato tu”... insomma una cagatina alla “vengo anch'io - no tu no”. Che è esattamente ciò che è sembrato a mio padre, mentre De Gregori da un punto di vista musicale è decisamente più orecchiabile.
Insomma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Certo qui c'è anche un ascolto distratto, disattenzione, però se uno pensa che quello che fai è merda di livello inferiore, una robetta leggera, difficilmente riuscirai a convincerlo del contrario per quanto sia “impegnato” il tuo testo. La morale della favola è che non si può scimmiottare un determinato stile/genere sperando di accattivare il pubblico adepto a tale stile/genere, perché intanto rimarrà schifato comunque. Tradotto in soldoni, da un punto di vista letterario, è inutile che in un certo genere pongo elementi mainstream per accattivarmi una fetta di pubblico che solitamente snobba il mio genere (tipico è il fantasy, considerato dai più una stupidata) perché continuerà a snobbarlo comunque. E viceversa rischierai di scontentare i lettori più assidui che troveranno fastidiosa l’introduzione di questi elementi mainstream. Intendiamoci: non voglio dire che se scrivi fantasy non puoi affrontare un tema impegnato e devi solo scrivere favolette per bambini, o che non puoi mischiare più generi tra loro ma devi essere sempre rigido e rigoroso. Tutt'altro, si può osare ma si deve osare fino in fondo. Avere il coraggio di essere originali, di urlare con la propria voce fuori dal coro. Non si possono inserire elementi che si discostano dai canoni solo per strizzare l'occhio a una determinata fascia di pubblico perché il lettore se ne accorge e ne rimane infastidito; la via di mezzo finisce per scontentare tutti. Tantovale stravolgi tutto, osa e cerca di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima, o almeno non l'ha fatto in quel modo. A molta gente non piacerai per niente ma altri potrebbero impazzire proprio per la tua voce fuori dal coro.

giovedì 25 maggio 2017

Le storie e le riflessioni

Leggendo "Va dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro, meditavo...

Meditavo sulla differenza del modo americano di concepire la letteratura e il nostro.
Quando gli americani parlano di scrittura, letteratura, romanzi, loro parlano di "storie". Capita spesso, se siete avvezzi ai telefilm americani, che dicano frasi come: "vi racconterò la mia storia, fa' la tua storia, queste sono storie da raccontare, non c'è nessuna storia qui, dov'è la storia?" Ciò vale per tutte le forme di narrazione, quindi anche per il cinema e la tv. I vari film e telefilm devono raccontare una qualche storia. Poi può essere più frenetica o intellettuale, quindi una storia d'azione, horror o psicologica o quello che è. Ma comunque una storia.
E ciò è evidente nei manuali di scrittura americani. Sono infarciti di consigli su come raccontare bene la storia, su come rendere più vividi i dettagli, meno noiosa e più comprensibile, fluida e accattivante la narrazione. Tutte cose sagge.
Ma partono tutte da un presupposto: la storia.
E se non si sta raccontando una vera e propria storia?
Ma solo un insieme di fatti, eventi, magari legati da un filo conduttore filosofico, psicologico, emotivo? Penso a libri come "L'eleganza del riccio" o il succitato - ispirazione di questo post - "Va dove ti porta il cuore". Entrambi sono un fluire di pensieri, marcatamente più filosofico il primo, di animo più spirituale-esistenziale il secondo. Fatto sta che entrambi non raccontano storie. E non a caso non sono libri americani.
Tralasciando la realtà francese che conosco meno, ma in Italia questo modo di scrivere mi pare molto diffuso. Qui non alberga tanto il concetto della storia, forse giusto nei romanzi gialli o comunque in quelli di genere, ma è molto diffuso il modo di narrare della Tamaro (non mi riferisco al romanzo epistolare, questo no che non è diffuso), ovvero di raggruppare un insieme di eventi significativi, narrati in prima persona e conditi da riflessioni proprie, più o meno profonde, più o meno banali. In questo caso il fulcro non è più la storia, ma "fare dei discorsi", presentare il proprio pensiero, la propria visione del mondo, far riflettere, suscitare immagini, emozioni, riflessioni, scuotere il pensiero comune; in tutto ciò la storia scompare, gli eventi narrati non sono altro che un pretesto per i discorsi. Non a caso, Bonifacci fa notare come uno dei più grandi problemi che affligge i manoscritti che arrivano alle CE è che non presentano alcuna storia, ma solo una serie di eventi che si susseguono l'uno dopo l'altro. D'altronde la cosa non stupisce, dato che la maggior parte dei libri di formazione è scritta così! Se questo è lo stile adottato da scrittori/scrittrici di successo come la Mazzantini, cosa vuoi che ne sappia un autore alle prime armi che scopiazz prende spunto da ciò che legge per scrivere a sua volta?
Gamberetta ai suoi tempi avrebbe detto: "Questo modo di scrivere FA SCHIFO! Questa è SPAZZATURA! Non si scrive così, cribbio!"
Io sono molto meno drastica.
In realtà non penso che questo modo di scrivere sia così orribile; a seconda di ciò che si vuole narrare, può anche andare bene, come nel testo molto filosofico della Barbery ad esempio. Però appunto dovrebbe essere limitato a particolari tipi di testo, la cosa drammatica è invece che questo tipo di narrazione imperversa, anche quando è palesemente inadatta. Siamo sempre lì: quando si fanno le cose senza cognizione di causa, si fanno un po' alla come capita, senza scegliere consapevolmente un determinato registro piuttosto che un altro. Uno può scegliere di scrivere senza punteggiatura o persino sgrammatico; se vuole perseguire un determinato effetto, allora il fine giustifica i mezzi, anche se non è detto che l'effetto finale riesca nel modo voluto, ma l'autore deve essere consapevole di ciò che sta facendo; invece quando le regole, la forma, la sintassi non sono ignorate per scelta ma per caso, vi assicuro che un occhio esperto lo nota eccome! Perché la scrittura è in modo evidente impacciata, grossolana, claudicante, si percepisce che non c'è progettualità.
Tornando agli americani di cui parlavo all'inizio, riflettevo sul fatto che se prendessimo come oro colato i loro testi di scrittura creativa, tutta la narrazione in stile Tamaro sarebbe da considerarsi spazzatura! Dopotutto è tutto raccontato, che schifo! Invece credo che bisogna avere una visione più ampia della letteratura, considerare altri punti di vista, altri modi diversi del narrare.
Il problema è che: 1. Il concetto di regolamentare la scrittura è americano, in Italia invece imperversa l'ideologia del "ognuno scrive alla come capita" (o alla cazzo di cane, se preferite);
2. Gli americani si concentrano però su consigli su come scrivere storie, non riflessioni.
Ne consegue che non ci sono indirizzamenti, consigli, strategie, regole, bon ton su come sarebbe opportuno scrivere le "non storie". Questi modelli sarebbero utili non solo agli aspiranti scrittori, ma anche a chi recensisce questo tipo di opere, altrimenti se non si hanno linea guida da seguire, secondo me si finisce per scadere nel soggettivo. Ognuno scrive quello che cavolo gli pare in base al famoso senso critico del "mi è piaciuto, non mi è piaciuto" e allora qui siamo tutti recensori, chiunque può dire la sua. E un libro può essere contemporaneamente bellissimo e bruttissimo, a seconda delle corde emotive che va a toccare.