giovedì 25 maggio 2017

Le storie e le riflessioni

Leggendo "Va dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro, meditavo...

Meditavo sulla differenza del modo americano di concepire la letteratura e il nostro.
Quando gli americani parlano di scrittura, letteratura, romanzi, loro parlano di "storie". Capita spesso, se siete avvezzi ai telefilm americani, che dicano frasi come: "vi racconterò la mia storia, fa' la tua storia, queste sono storie da raccontare, non c'è nessuna storia qui, dov'è la storia?" Ciò vale per tutte le forme di narrazione, quindi anche per il cinema e la tv. I vari film e telefilm devono raccontare una qualche storia. Poi può essere più frenetica o intellettuale, quindi una storia d'azione, horror o psicologica o quello che è. Ma comunque una storia.
E ciò è evidente nei manuali di scrittura americani. Sono infarciti di consigli su come raccontare bene la storia, su come rendere più vividi i dettagli, meno noiosa e più comprensibile, fluida e accattivante la narrazione. Tutte cose sagge.
Ma partono tutte da un presupposto: la storia.
E se non si sta raccontando una vera e propria storia?
Ma solo un insieme di fatti, eventi, magari legati da un filo conduttore filosofico, psicologico, emotivo? Penso a libri come "L'eleganza del riccio" o il succitato - ispirazione di questo post - "Va dove ti porta il cuore". Entrambi sono un fluire di pensieri, marcatamente più filosofico il primo, di animo più spirituale-esistenziale il secondo. Fatto sta che entrambi non raccontano storie. E non a caso non sono libri americani.
Tralasciando la realtà francese che conosco meno, ma in Italia questo modo di scrivere mi pare molto diffuso. Qui non alberga tanto il concetto della storia, forse giusto nei romanzi gialli o comunque in quelli di genere, ma è molto diffuso il modo di narrare della Tamaro (non mi riferisco al romanzo epistolare, questo no che non è diffuso), ovvero di raggruppare un insieme di eventi significativi, narrati in prima persona e conditi da riflessioni proprie, più o meno profonde, più o meno banali. In questo caso il fulcro non è più la storia, ma "fare dei discorsi", presentare il proprio pensiero, la propria visione del mondo, far riflettere, suscitare immagini, emozioni, riflessioni, scuotere il pensiero comune; in tutto ciò la storia scompare, gli eventi narrati non sono altro che un pretesto per i discorsi. Non a caso, Bonifacci fa notare come uno dei più grandi problemi che affligge i manoscritti che arrivano alle CE è che non presentano alcuna storia, ma solo una serie di eventi che si susseguono l'uno dopo l'altro. D'altronde la cosa non stupisce, dato che la maggior parte dei libri di formazione è scritta così! Se questo è lo stile adottato da scrittori/scrittrici di successo come la Mazzantini, cosa vuoi che ne sappia un autore alle prime armi che scopiazz prende spunto da ciò che legge per scrivere a sua volta?
Gamberetta ai suoi tempi avrebbe detto: "Questo modo di scrivere FA SCHIFO! Questa è SPAZZATURA! Non si scrive così, cribbio!"
Io sono molto meno drastica.
In realtà non penso che questo modo di scrivere sia così orribile; a seconda di ciò che si vuole narrare, può anche andare bene, come nel testo molto filosofico della Barbery ad esempio. Però appunto dovrebbe essere limitato a particolari tipi di testo, la cosa drammatica è invece che questo tipo di narrazione imperversa, anche quando è palesemente inadatta. Siamo sempre lì: quando si fanno le cose senza cognizione di causa, si fanno un po' alla come capita, senza scegliere consapevolmente un determinato registro piuttosto che un altro. Uno può scegliere di scrivere senza punteggiatura o persino sgrammatico; se vuole perseguire un determinato effetto, allora il fine giustifica i mezzi, anche se non è detto che l'effetto finale riesca nel modo voluto, ma l'autore deve essere consapevole di ciò che sta facendo; invece quando le regole, la forma, la sintassi non sono ignorate per scelta ma per caso, vi assicuro che un occhio esperto lo nota eccome! Perché la scrittura è in modo evidente impacciata, grossolana, claudicante, si percepisce che non c'è progettualità.
Tornando agli americani di cui parlavo all'inizio, riflettevo sul fatto che se prendessimo come oro colato i loro testi di scrittura creativa, tutta la narrazione in stile Tamaro sarebbe da considerarsi spazzatura! Dopotutto è tutto raccontato, che schifo! Invece credo che bisogna avere una visione più ampia della letteratura, considerare altri punti di vista, altri modi diversi del narrare.
Il problema è che: 1. Il concetto di regolamentare la scrittura è americano, in Italia invece imperversa l'ideologia del "ognuno scrive alla come capita" (o alla cazzo di cane, se preferite);
2. Gli americani si concentrano però su consigli su come scrivere storie, non riflessioni.
Ne consegue che non ci sono indirizzamenti, consigli, strategie, regole, bon ton su come sarebbe opportuno scrivere le "non storie". Questi modelli sarebbero utili non solo agli aspiranti scrittori, ma anche a chi recensisce questo tipo di opere, altrimenti se non si hanno linea guida da seguire, secondo me si finisce per scadere nel soggettivo. Ognuno scrive quello che cavolo gli pare in base al famoso senso critico del "mi è piaciuto, non mi è piaciuto" e allora qui siamo tutti recensori, chiunque può dire la sua. E un libro può essere contemporaneamente bellissimo e bruttissimo, a seconda delle corde emotive che va a toccare.